Ezio Denti – Marzo 2016

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Massimo Bossetti: il volto di una giustizia che spaventa.

Sono passati tanti anni dal momento in cui, durante il noto processo a Enzo Tortora, l’avvocato Raffaele Della Valle pronunciò la sua arringa.

 

Una parte, in particolare, è rimasta celebre, e credo che ancora oggi valga la pena di riportarla:
“Se le vostre coscienze diranno di condannare Enzo Tortora, noi avvocati ci piegheremo. Se malauguratamente Tortora dovesse essere condannato, soffriremo tutti insieme perché sapremo noi soli che una grossa ingiustizia è stata commessa ai suoi danni. Noi non abbiamo paura di voi, ma per voi. Perché non vorremmo che un giorno lontano risonasse nelle vostre coscienze quel dubbio insinuato da tanti intellettuali: e se Tortora fosse innocente? Quello sarebbe un giorno tremendo che non auguro a nessuno, neppure al più acerrimo dei nemici e neppure a voi che siete i nostri giudici e che pronuncerete una sentenza giusta in nome del popolo italiano.”

 

Perché tornare, a distanza di così tanto tempo, su queste parole?
Si usa dire che gli avvocati difendano i propri clienti per una sorta di “dovere d’ufficio”.

 

Non sono un avvocato, e come professionista non mi sento rispecchiato da tale modus operandi: svolgo la mia attività in favore della verità e della giustizia, e del corretto accertamento dei fatti.
L’attività che da mesi porto avanti per il caso Bossetti, però, mi ha mostrato come, all’interno del pool difensivo, non ci sia una sola persona che non abbia maturato la salda convinzione della totale estraneità ai fatti dell’imputato.

 

L’ho ribadito tante volte: il caso Bossetti si è configurato sin dall’inizio come un processo mediatico dai toni duri, aspri, talvolta mistificatori, quasi sempre tesi a negare il contraddittorio ed a demolire in ogni modo, anche a rischio di cadere nel paradosso, nella contraddizione e nella scarsa aderenza alla realtà -quando non addirittura nella consapevole menzogna-, la figura dell’indagato.

 

Una sorta di colpevole perfetto per porre la parole fine su un’indagine che appare, di contro, molto lontana dalla perfezione.
Potrebbe sembrare del tutto inutile, o perfino spocchioso, ripetere di aver trascorso intere giornate e nottate nella letture delle carte: 60.000 pagine vuote di qualsivoglia elemento probatorio a carico dell’imputato, pagine nelle quali ogni elemento si mostra fallace, insussistente, a tratti surreale.

 

Ultimo esempio in ordine cronologico, il caso del “furgone volante”, del quale ho avuto modo di parlare sui media e che non saprei definire in altro modo: un veicolo che sbuca dal nulla, e che non viene ripreso da una telecamera (ben funzionante) dinnanzi alla quale sarebbe necessariamente dovuto transitare.

 

Questo è solo uno dei tanti buchi, delle tante ricostruzioni inaccettabili, delle tante contraddizioni: elementi che si sommano in un crogiolo di niente, in un limbo di assurdità insufficienti -mi auguro- a distruggere per sempre la vita di un uomo.

 

Perché se tanti anni sono passati dal caso Tortora, l’amara sensazione che mi assale, e che assale i miei collaboratori ed il resto del team ogniqualvolta ci si ritrovi ad analizzare, pezzo dopo pezzo, ogni singolo elemento presente nelle carte, è che il tempo non sia stato in grado di sanare le ferite profonde della nostra giustizia, che oggi più che mai sono sotto i nostri occhi.

 

Nonostante non sia questo il momento, né la sede, di affrontare la tematica fuor di retorica e in modo concreto, mostrando cosa davvero dicono le carte, quali altre possibili soluzioni avrebbero potuto offrire in luogo dell’abito su misura per un “mostro” al quale, nonostante il lavoro di sartoria, continua inevitabilmente a non addirsi, mi permetto di dire che nessuno di noi, ed io in prima persona, parlerebbe in questo modo se non serbasse, a monte, una convinzione poggiante su basi solide ed irrefutabili.

 

Basi che mostrano, giorno dopo giorno, il volto di una giustizia cieca: non a causa della benda dell’imparzialità che, iconograficamente, copre gli occhi della statua, ma a causa della poca propensione all’ammissione di errori, del facile innamoramento della tesi precostituita, in ultima analisi della facile creazione del mostro, che può colpire, da un giorno all’altro, ognuno di noi.

 

Vorrei dunque cogliere l’occasione per ringraziare profondamente chi, a livello morale, supporta il mio ed il nostro lavoro, informandosi da più fonti, non cadendo in facili tranelli, non smettendo mai di interrogarsi.

 

Sarà anche, e soprattutto, per merito di queste persone se un giorno, oltre a tanti capi cosparsi di cenere in una tardiva richiesta di perdono, potremmo vedere anche, forse, una giustizia più cauta prima di offrire frettolosamente alla folla dei “mostri” che potrebbero non essere tali e che in questo caso, come ci raccontano le stesse carte della Procura, stanno altrove e non, da quasi un anno, nella Casa Circondariale di Bergamo.