Ezio Denti – Maggio 2016

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Massimo Bossetti, i “Carneadi” e la ricerca della verità.

Negli ultimi tempi, ho usato spesso questo spazio per portare avanti alcuni riflessioni su una serie di tematiche che, nel caso Yara/Bossetti, finiscono inevitabilmente per intrecciarsi.

Nel groviglio inestricabile di notizie che da ormai quasi un anno si susseguono senza soluzione di continuità, è capitato di leggere ed ascoltare di tutto: in molti casi si è trattato di informazione a senso unico, in altri si è potuto apprezzare un equilibrio maggiore, ma in tutti non è mai venuta meno la percezione di un tassello mancante, di continue lacune da comporre, di incongruenze sulle quali interrogarsi affinché l’ennesima vittima non sia la verità.

In un celebre passo dei Promessi Sposi, il Manzoni ci presenta Don Abbondio che, imbattendosi in un libro, esclama: “Carneade! Chi era costui?”.
Questa frase, entrata a far parte del repertorio culturale degli Italiani, ha diverse chiavi di lettura, tutte segnate da un carico di amara ironia: dal personaggio che si trova a rimuginare su quanto evidentemente non conosce, ai “Carneadi”, ossia gli sconosciuti di turno, l’oggetto sul quale si abbattono gli interrogativi e, spesso, l’ignoranza (senza alcuna connotazione offensiva, ma in senso etimologico come “non conoscenza”) altrui.

Non è semplice occuparsi, come cerca di fare il team difensivo di Massimo Bossetti, di portare alla luce almeno un po’ di verità su un caso complesso come l’omicidio di Yara Gambirasio, e non è semplice muoversi controvento, foss’anche per portare avanti la possibile verità di un Carneade.
Poco importa che il Carneade di turno si chiami Bossetti o con il nome di ciascuno di noi, anzi, non c’è alcuna differenza, perché le verità inascoltate hanno sempre ed inevitabilmente lo stesso volto: quello dell’indifferenza di troppe persone.

L’indifferenza è una scelta, così come è una scelta, in fondo, il maturare una convinzione piuttosto che un’altra: ma esistono anche convinzioni pericolose; quelle che non ammettono alcuna possibilità di appello, che si configurano come puro e semplice innamoramento di una tesi precostituita, che non consentono di vacillare neppure di fronte ad elementi di forte dubbio.

Di recente, si era parlato perfino di un detenuto che avrebbe raccolto nientemeno che le confessioni di Bossetti per poi riferirle al pubblico ministero.
Confessioni prive di qualsiasi credibilità, in quanto la descrizione appariva, sin dal principio, segnata da dinamiche completamente insostenibili, e non a caso smentite da una serie di ulteriori accertamenti effettuati a seguito della presunta delazione.

Nonostante questo, c’è stato chi pur di non rinunciare alla propria tesi preferita ha dato ampio spazio a tali notizie, levando ancor più in alto la propria dichiarazione di colpevolezza pre-processuale, sostenendo che dovesse certamente ritenersi credibile il detenuto delatore.
Ebbene, non si è fatta attendere la dimostrazione dell’attendibilità del presunto teste, il quale qualche giorno giorno fa è stato arrestato e condannato per direttissima a seguito di un tentativo di evasione: verrebbe da chiedersi se, dopo questa emblematica attestazione di credibilità, si parlerà ancora dell’intenzione di ergerlo a “supertestimone” o se, per paura che la sua -ormai possiamo dirlo con certezza- grandissima attendibilità si riverberi, per proprietà transitiva, sull’intera inchiesta, si preferirà dimenticarlo quanto più in fretta possibile, come d’altra parte accaduto con tutti gli elementi sgraditi.

E allora, affinché questo ulteriore tassello di un caso mediatico-giudiziario la cui “credibilità” riesce a rivelarsi, talvolta, perfino senza l’ausilio del team difensivo di Massimo Bossetti, lo inserisco volentieri nella riflessione odierna, come emblema delle verità dei Carneadi aprioristicamente negate, ma anche delle “verità” per le quali nessuno scommetterebbe un soldo bucato, ma per le quali non può che vigere un’accettazione aprioristica e di comodo.

Si dice, in fondo, che l’amore sia cieco: e si potrebbe cominciare a pensare che anche l’amore per la propria tesi accusatoria, evidentemente, ricada in questa ipotesi.