
Tra indiscrezioni e bisogno di discrezione: il caso Massimo Bossetti e la gogna mediatica.
Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno messo a dura prova la diffusa convinzione che gli spettacoli della pubblica gogna e del presunto “untore” da offrire in pasto alla piazza fossero appannaggio di proverbiali secoli bui collocati in un lontano ed evanescente passato.
La trattazione mediatica del caso giudiziario relativo a Massimo Bossetti ha mostrato un volto del giornalismo italiano che in tanti avrebbero forse preferito non conoscere.
Il sacrosanto diritto di cronaca, del quale spesso e volentieri si parla a giustificazione di determinate tendenze mediatiche, non dovrebbe mai sfociare nella sostituzione dei media ai tribunali né in una morbosità che non aiuta l’accertamento dei fatti.
L’eccessiva spettacolarizzazione di indagini e processi, che giornali e trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, finisce per degenerare in vere e proprie “gogne mediatiche”, invariabilmente improntate alla demonizzazione della figura dell’indagato ed alla esclusiva divulgazione di tesi accusatorie, il tutto a scapito della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, della tutela della dignità umana e del diritto al “giusto processo”.
“Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio”.
Così recita un aforisma di Bertold Brecht, che eleva l’etica del dubbio al rango di virtù.
Meno virtuoso è che il dubbio sia l’unico elemento certo e costante di un’indagine per omicidio.
È forse arrivato il momento di rivalutare la tendenza di taluni ad accaparrarsi qualche titolone insulso da spalmare sui rotocalchi in un’ostinata mistificazione della realtà per ottenere, in assenza di prove concrete, almeno il consenso dell’opinione pubblica: manca poco, infatti, che proprio questo continuo, pedissequo, indegno martellamento risvegli qualcuno dal torpore.
Che a carico di Massimo Bossetti non sussista alcun elemento probatorio concreto è già chiaro a chiunque abbia letto le carte, e molto presto, probabilmente, sarà chiaro a tutti: d’altronde, un’inchiesta che produce reali evidenze a carico di un indagato, che bisogno avrebbe di aggrapparsi continuamente, con l’aiuto di media compiacenti, ad una serie di elementi con una spiccata tendenza a coprirsi di ridicolo?
Sono particolarmente eloquenti, a tal proposito, i maldestri tentativi di decontestualizzare alcune intercettazioni in carcere nelle quali Bossetti parla del DNA, con il malcelato fine di far passare il messaggio che lo stesso stia avvalorando il DNA che graverebbe a suo carico.
Molto interessanti, perché sorge spontanea una domanda: ma che “prova regina” sarebbe un DNA che, per acquistare credibilità, ha bisogno di essere avvalorato dalle parole di un carpentiere edile?
Per i più attenti, questo genere di atteggiamenti è più eloquente di mille parole, e mostra quanto siano più che fondati i dubbi già ripetutamente sollevati dal pool difensivo, che nonostante la pacatezza finora mostrata (il ruolo di strilloni da piazza lo lasciamo, ben volentieri, a chi non ha altre frecce nel proprio arco e deve pertanto ridursi ai tentativi di gridare più forte per coprire le parole della “controparte”), è coeso e determinato a sollevare i propri dubbi (ben più che ragionevoli) in sede opportuna.
Tanto entusiasmo per le proprietà salutari del delirio mediatico al quale gli Italiani sono da mesi costretti ad assistere è motivato sempre più dall’evidenza di una presa di coscienza di un buco nell’acqua: non si spiegano altrimenti i tentativi disperati di attaccarsi perfino, in un ultimo, disperato colpo di reni, al fatto che l’indagato abbia visionato nientemeno che la pagina facebook di una finalista di Miss Italia.
Poiché la produzione di queste mistificazioni dal sapore farsesco, e decisamente offensivo visto il dramma trattato, è particolarmente copiosa, risulta impossibile dilungarsi nel merito: a questo punto sarà sufficiente osservare come il pregio di queste notizie sembri quasi pari a quello delle testate giornalistiche che le divulgano, e che, a questo punto, bisogna ringraziare per il continuo rendere edotto il pubblico del pugno di mosche che da ormai nove mesi una Procura stringe scientemente in mano.
Sarebbe forse stato più edificante spendere le proprie energie nell’approfondimento di qualche altro elemento possibilmente utile all’indagine, ad esempio verificando anche la presenza e la giustificazione di eventuali ulteriori tracce biologiche di grande interesse investigativo, o cercando di chiarire le evidenti lacune delle indagini le quali, se ancora non fossero chiare a chi, titolato a fare informazione, vi sorvola bellamente, sono per qualcun altro cristalline.
D’altro canto, è la legge a disporre che vengano cercati anche eventuali elementi a discarico dell’indagato.
E se in fondo è facile creare il “mostro” da prima pagina quando, dimenticando i principi della propria professione, si può evitare accuratamente il contraddittorio, mentre il garantismo lo si ricorda solo quando la piazza è sgombra, meno facile è mantenere la stessa linea quando, prima o poi, il contraddittorio, per forza di cose, arriva: la saggezza popolare ha sempre avvertito sui pericoli del fare i conti senza l’oste.
A quel punto chissà se, per convincere tutti dell’opera certosina, saranno sufficienti un paio di acrobazie linguistiche, qualche sfera di cristallo con la quale, venendo meno al proprio dovere professionale, pronosticare una certa condanna, e le possibili rassicurazioni di fantomatici amici d’oltreocano da offrire alla folla o se, terminate le parole, non resterà che guardare in faccia la realtà dei fatti e ammettere un errore che, dopo tanti dubbi, rischia di diventare l’unica certezza.