
Il caso Bossetti e l’importanza di restare umani.
Il caso Bossetti, negli ultimi mesi, ci ha offerto su un piatto d’argento una lunga serie di contraddizioni, malcelate velleità di andare oltre il diritto stesso, contorsionismi, presunte prove regine declassate a “mezze prove” non ripetibili.
Chi ha seguito il caso sin dall’inizio, con occhio scevro da preconcetti di sorta, ed ancor più chi ha avuto modo di leggere e studiare le carte, migliaia di pagine in cui fitte parole si mescolano mostrando, inaspettatamente, una impressionante assenza di contenuti, non può che porsi una serie di domande che paiono destinate, per il momento, a restare prive di risposta, e chi cerca la verità non può che sentirsi quasi inerme di fronte a verità urlanti e quasi mai ascoltate, sentieri aperti e quasi mai battuti.
Le prove, quelle vere, per definizione non dovrebbero lasciar spazio a grossi dubbi: quando, invece, i dubbi ci sono, e si sommano fino a divenire insormontabili, diviene difficile parlare di prove e lo spettro degli errori, e dell’errore, nelle indagini, diviene tangibile.
Il collegio difensivo di Massimo Bossetti, come affermato tante volte, lavora senza sosta e con passione: non è nostro il compito di individuare il responsabile (o i responsabili), ma è nostro il dovere di evidenziare se e quando qualcosa non va, e se e quando i conti, per quanto ci si ostini, proprio non tornano.
Qualcuno ebbe a dire che la soluzione giusta è spesso la semplice: e chissà che la soluzione giusta, meno artificiosa, meccanica e raffazzonata di quella tristemente attuale, non sia già stata sfiorata, magari scartata con troppa fretta.
Non è nostro compito fornire soluzioni ma, ancora una volta, è nostro dovere porre domande: perché dalle domande, talvolta, può scaturire la giusta riflessione.
Non ci sono regine né corone, perché le eccessive lacune non lasciano spazio alla gloria e le conclusioni avventate, specie quelle alle quali si perviene dopo un percorso segnato in partenza, che conosce sin dal principio la sua destinazione poiché dal principio, ancora, ha deciso di precludere frettolosamente ogni altra strada, non hanno molto di cui andar fieri, e spesso non hanno nulla di cui essere soddisfatti.
E allora non posso che augurarmi che il lavoro certosino, quello tanto decantato, ma poco palese per quanto si vede nelle carte, possa essere condotto dal pool difensivo: questo è l’auspicio e non posso che sperare che si concretizzi in un lavoro capace di far crollare, o perlomeno mettere in seria discussione, avventate certezze.
Ho detto più volte che quanto accaduto a Bossetti, anche a prescindere da ogni considerazione sull’accaduto, dovrebbe smuovere tutti, perché tutti potrebbero trovarsi al suo posto, magari da innocenti, a gridare una verità negata e inascoltata, a percorrere un cammino che qualcun altro ha già segnato in propria assenza, senza diritto di replica né di obiezione.
Qualora il caso Bossetti dovesse concludersi con un’assoluzione, al di là delle polemiche, delle divisioni “colpevoliste” e “innocentiste”, talvolta sfocianti quasi in una tifoseria da stadio che finisce per scontrarsi un po’ con la delicatezza dei fatti in esame, porrebbe una serie di questioni ancora maggiori delle domande che, già da ora, tempestano gli osservatori più attenti.
Ancora, e soprattutto, porrebbe un problema di responsabilità.
Forse, o perlomeno questo mi piace pensare, getterebbe anche le basi per una maggiore sensibilità e trasparenza, anche nel singolo individuo.
Comunque vada, questa vicenda ha e avrà tanto da insegnare: non resteranno slogan né vacue millanterie, alla fine, ma solo dubbi con i quali scontrarsi, ma forse anche dai quali imparare.
Perché se è giusto, comprensibile e forte il desiderio di giustizia, almeno altrettanto lo è, o perlomeno c’è chi vi confida, il desiderio di non volersi mai e poi mai rendere responsabili della ingiusta distruzione di una seconda vita.